"Spegni il fuoco!"

La questione tibetana...ovvero non solo torce umane

Indice

Premessa
La TAR
La Storia del Tibet (cenni)
Il Tibet nel diritto internazionale
La rivolta olimpica in Tibet (marzo-maggio 2008)
La prima torcia umana: l'immolazione di Thích Quảng Dùc in Vietnam 

(N.B. tutto il materiale pubblicato è degli aventi diritto. Qui si è voluto organizzare in maniera organiga materiale stralciato da più fonti per permettere una prima valutazione sui principali temi tibetani)


Premessa
da Wikipedia...


Il Tibet non ha una definizione univoca.

Per il Governo tibetano in esilio, il Tibet è una vasta zona rimasta sotto l'influenza culturale tibetana per molti secoli, comprese le province tradizionali di Amdo, Kham (Khams) e Ü-Tsang (dBus-gTsang). Da questa zona sono però escluse le aree sotto l'influenza culturale del Tibet storico all'esterno della Cina: Arunachal Pradesh, Sikkim, Bhutan e Ladakh, sono reclamati soltanto da qualche gruppo tibetano. 


L'area ha un'estensione di 2,5 milioni di chilometri quadrati, un quarto dell'intera Cina, ed ospita 6 milioni di tibetani.

L'altitudine media è di 4900 m s.l.m.

 

La superficie della Cina comprensiva di tutte le regioni autonome (Guangxi, Mongolia interna, Ningsia, Sinkiang e Tibet) è di 9 572 900 km².




Per la Repubblica Popolare Cinese, il Tibet è la Regione Autonoma del Tibet (TAR), e reclama anche il territorio dell'Arunachal Pradesh (India) come appartenente alla stessa. La Regione Autonoma copre solo l'Ü-Tsang e il Kham occidentale, mentre l'Amdo e il Kham orientale appartengono alle province cinesi di Qinghai, Gansu, Yunnan e Sichuan.

La TAR

La Regione Autonoma del Tibet, nota anche con l'acronimo TAR (Tibet Autonomous Region) è una regione con autonomia a livello di provincia della Repubblica Popolare Cinese.

Ha 3 milioni di abitanti circa, su un territorio di 1.200.000 kmq per una densità di 2,44 ab/kmq.

La Regione Autonoma del Tibet costituisce una parte dell'originaria nazione del Tibet ed è localizzata nell'omonimo altopiano e comprende una parte importante della catena dell'Himalaya (tra cui il Monte Everest, che con i suoi 8.848 metri è la montagna più alta del pianeta).

Confini

Confina a nord e a est con la regione autonoma dello Xinjiang e con le province cinesi di Qinghai e Sichuan; a ovest confina con l'India e a sud con Nepal, India e Bhutan e con la provincia cinese dello Yunnan.

La Regione Autonoma del Tibet ha la più bassa densità delle 6 regioni amministrative a livello di province cinesi a causa del clima e del territorio altamente montagnoso.

La popolazione è costituita da tibetani e da cinesi di etnia Han. Non esistono stime ufficiali attendibili inerenti alla percentuale degli uni e degli altri. Sono presenti anche piccoli gruppi tribali come i Monpa e i Lhoba nella parte sud-ovest della regione.

Economia

I tibetani dipendono tradizionalmente dall'agricoltura e dall'allevamento, in particolare di yak. Dagli anni ottanta, con l'arrivo della tecnologia e della modernità dalla Cina, i servizi svolgono un ruolo importante.

Nel 2003, il PIL era di 2,2 miliardi USD e costituiva il minore tra le province e regioni cinesi, contribuendo solo per lo 0,1% all'intera economia cinese.

Etnie

Storicamente la popolazione del Tibet è costituita primariamente da tibetani. Altri gruppi etnici includono i monpa, lhoba, mongoli e hui. Il Governo tibetano in esilio stima che vi siano 7,5 milioni di non tibetani introdotti dal governo cinese per nazionalizzare la regione, contro 6 milioni di tibetani, e ritiene che la recente apertura della ferrovia del Qingzang, che collega Lhasa con Pechino in 40 ore, faciliterà l'afflusso di persone da altre province cinesi. Il governo cinese smentisce ogni accusa e afferma che la TAR è abitata al 92% da tibetani.

La Storia del Tibet (cenni)

Le origini

Esistono poche testimonianze sulle origini del Tibet, si sa però che inizialmente era popolato da pastori nomadi provenienti dall'Asia centrale. La storia del paese prima del VII secolo si affida alla tradizione orale del suo popolo, visto che non era ancora stata introdotta la scrittura, e si fonde spesso con elementi mitologici.

Una delle leggende più popolari narra che Avalokiteśvara, il Bodhisattva della Compassione, incarnatosi in una scimmia, fecondò un demone che aveva assunto le sembianze di un'orchessa, e dalla loro unione nacquero i sei capostipiti delle principali tribù tibetane.

Secondo un'altra di tali tradizioni mitologiche, l'immortale sovrano Nyatri Tsenpo fondò nel 173 a.C. la dinastia Yarlung, nella valle dell'omonimo fiume Yarlung situata nel Tibet meridionale, e tornò in cielo usando la stessa corda magica da cui si era calato, lasciando il regno al suo successore. La data dell'insediamento al trono di Nyatri Tsenpo viene celebrata come l'inizio del calendario tibetano. In quel periodo la religione praticata era il Bön, allora nella sua prima fase legata allo sciamanesimo. Di quel periodo si può ancora ammirare il castello-monastero di Yumbulakhang, nei pressi di Tsedang.

L'impero tibetano ed il suo declino

Colui che viene considerato il vero fondatore della nazione tibetana è Songtsen Gampo, il XXXIII sovrano della dinastia di Yarlung che unificò tutti i territori dell'altopiano e fondò l'impero tibetano. Malgrado i riferimenti storici che lo riguardano siano confusi e contraddittori, sono i primi che hanno basi scritte e godono di una discreta attendibilità. Nato nel 608 d.C., trasferì la capitale a Lhasa, introdusse per primo la religione buddhista e la scrittura tibetana, fece inoltre costruire il Jokhang, primo tempio buddhista in Tibet.
 

Sotto il regno di Trisong Detsen, con l'arrivo del monaco indiano Padmasambhava, il buddhismo in Tibet, con l'introduzione delle tecniche tantra, si distinse da quelli praticati negli altri paesi e diventò religione di stato. Venne fondata la prima scuola del buddhismo tibetano, quella Nyingma, che significa antico, e nel 770 venne costruito il primo monastero lamaista del Tibet, quello di Samye. L'impero continuò il suo periodo aureo fino alla morte nell'836 del sovrano Ralpacan, considerato il terzo dei cosiddetti re del Dharma per il suo contributo alla diffusione del buddhismo, e firmatario di un trattato di pace con la Cina nell'822 che segnava i confini storici fra i due stati.




Ralpacan fu ucciso dal fratello Langdarma, che ne prese il trono sobillato dalla nobiltà Bön ancora molto influente e compì persecuzioni contro il buddhismo, allontanando tutti i monaci da Lhasa. Dopo il suo assassinio, avvenuto nell'842 ad opera di un lama travestito, l'impero si sgretolò in tanti piccoli regni perennemente in lotta tra loro e cominciò un periodo buio per il Tibet.

La rinascita del buddhismo

Nel periodo successivo Lhasa perse il suo ruolo di capitale politica e spirituale ed il lamaismo sopravvisse nel regno tibetano occidentale di Ngari, creato dagli esiliati successori degli Yarlung, e nei monasteri delle regioni orientali del Kham e dell'Amdo.

Verso la metà dell'XI secolo, grazie al sovrano di Ngari, assieme al grande maestro indiano Atisha, arrivarono nel Tibet occidentale una serie di guru e saggi che diffusero di nuovo il buddhismo nel paese; alla rinascita spirituale che si diffuse anche nelle altre aree dell'altopiano, fece eco un nuovo fermento nel campo delle arti, specialmente nella letteratura con la traduzione e lo sviluppo dei concetti espressi nei testi sacri del buddhismo indiano.

A cavallo tra l'XI ed il XII secolo nacquero due delle quattro più importanti scuole del lamaismo: nel 1072, grazie all'opera del monaco Sachen Kunga Nyingpo, venne fondata la scuola dei Sakya, e qualche decennio dopo il lama Gampopa istituì quella dei Kagyu, i cui insegnamenti si ramificheranno in diverse "sotto-scuole", tra le quali quella dei Karmapa e degli Shamarpa. Tutti questi lignaggi, chiamati sarma, termine che significa nuova trasmissione, erano destinati a giocare un ruolo importante nella vita politica dei secoli successivi: è in questo periodo che il legame tra il potere religioso e quello temporale in Tibet diventa indissolubile.

La dominazione mongola e cinese

Nel XIII secolo, dopo la calata delle orde mongole di Gengis Khan, il paese diventò protettorato dell'Impero mongolo e venne riunificato. Quando il nuovo sovrano dei mongoli Kublai Khan diventò imperatore della Cina nel 1271, fondando la dinastia Yuan, nacque la secolare rivendicazione cinese della sovranità sul Tibet. I Sakyapa convertirono l'imperatore al lamaismo, che diventò religione di stato dell'impero, ed ottennero il titolo di precettori imperiali e governanti del Tibet. 




Con il declino dei mongoli il Tibet si emancipò dalla loro influenza nel 1358, pur restando sotto il protettorato della nuova dinastia Ming cinese, quando il controllo del paese passò dai Sakyapa ai Kagyupa del ramo Phagdru, insediati nella valle meridionale dello Yarlung.

Nel 1391, nacque Gedun Khapa, che venne definito la reincarnazione di Avalokitesvara, il Bodhisattva della Compassione buddhista, e sarebbe stato insignito con il titolo postumo di primo Dalai Lama.

I conflitti interni fra i vari regni e le scuole buddhiste ad essi associate fecero ritornare il Tibet nella sfera d'influenza dei mongoli. La fondazione dell'ultima grande scuola del buddhismo tibetano, quella dei Gelugpa, avvenne agli inizi del XV secolo, e l'impersonificazione politico-religiosa più alta che tale scuola tuttora esprime è quella del Dalai Lama, che assieme ai Gelugpa acquisì un'importanza sempre maggiore nel panorama politico tibetano.

Le lotte intestine dei Kagyu, ora insediatisi a Shigatse nello Tsang, la parte occidentale della valle dello Yarlung, portarono ad un nuovo frazionamento del Tibet, permettendo ai Gelug di prendere il controllo di Lhasa. Agli inizi del XVI secolo i Gelug ed i Kagyu cominciarono una lotta che avrebbe visto la fine solo nel 1640, quando il Dalai Lama invocò l'intervento del protettore mongolo che distrusse l'esercito dello Tsang, consegnando al patriarca il paese nuovamente unificato.

La crescente influenza dei mongoli spinse il quinto Dalai Lama Ngawang Lobsang Gyatso (1617-1682), a chiedere l'intervento della Cina, dominata all'epoca dalla Dinastia Qing, e nel 1720 le truppe imperiali occuparono Lhasa sconfiggendo i nord-asiatici ed instaurando al potere il lignaggio dei Dalai Lama: da questo momento la Cina diventò, fino ai giorni nostri, l'incontrastata dominatrice della scena politica tibetana. Anche questa data segna una tappa delle rivendicazioni cinesi sull'altopiano. I Qing si videro riconosciuti ampi territori in cambio del loro intervento, ed imposero l'insediamento di un loro rappresentante, chiamato amban, a Lhasa.





L'influenza politica dell'occidente

Nel 1716, con l'arrivo a Lhasa del gesuita Ippolito Desideri, iniziarono i primi contatti con l'occidente. Nel 1774 la prima missione britannica entrò in Tibet, seguita dall'invasione dei gurka nepalesi, che venne respinta grazie all'intervento delle truppe cinesi chiamate in soccorso dai tibetani.

Nel 1904 l'India britannica, approfittando dei disordini interni all'impero cinese, invase temporaneamente il Tibet arrivando fino alla capitale costringendo il Dalai Lama a fuggire in Mongolia ed i suoi rappresentanti a firmare un accordo che instaurò nel paese l'influenza degli europei. Paghi del risultato i britannici si ritirarono l'anno dopo. Solamente nel 1912, con la fine dell' impero cinese, fu proclamata l'indipendenza del Xinjiang, della Mongolia e del Tibet, in cui il Dalai Lama cacciò gli amban e riprese il pieno potere senza alcuna influenza estera.

Approfittando della situazione in Cina, dilaniata da una guerra civile, nonché del rapporto tra i britannici ed i russi, impegnati nel grande gioco per il controllo dell'Asia che fece del Tibet uno stato cuscinetto, il Dalai Lama governò senza attacchi esterni fino al 1950.

Il XIV Dalai Lama e l'invasione cinese
Dopo la morte del XIII Dalai Lama, avvenuta nel 1933, Tenzin Gyatso venne riconosciuto come la sua reincarnazione nel 1937, all'età di due anni. In una visione profetica un Dalai Lama del passato raccontò che "quando l'uccello di ferro volerà, verrà l'uomo rosso e la distruzione".

Il 1º ottobre del 1949 Mao Zedong proclamò a Pechino la fondazione della Repubblica Popolare della Cina. L'anno seguente l'esercito cinese invase il Kham occidentale, territorio tibetano, ed i reggenti di Lhasa si affrettarono a proclamare ufficialmente XIV Dalai Lama il quindicenne Tenzin Gyatso, facendolo provvisoriamente soggiornare nel sud del paese nel timore di un'invasione integrale. A seguito delle rassicurazioni in merito da parte dei cinesi il Dalai Lama rientrò a Lhasa, sforzandosi negli anni successivi di ottenere condizioni di occupazione meno dure e di gestire gli affari interni del Tibet senza influenze esterne.

Nel 1951 fu stipulato tra i rappresentanti di Pechino e quelli di Lhasa l'accordo dei 17 punti, successivamente disconosciuto da entrambe le parti, in base al quale i tibetani riconoscevano la sovranità cinese e permettevano l'ingresso a Lhasa di un contingente dell'esercito per programmare il graduale inserimento delle riforme per l'integrazione del Tibet nella Cina (tra le quali l'abolizione della servitù della gleba, istituto giuridico pienamente in vigore all'epoca, e del quale gli stessi monasteri buddisti facevano uso). Le autorità cinesi si impegnarono in cambio a non occupare il resto del paese e a non interferire nella politica interna, la cui gestione veniva lasciata al governo tibetano, ma prendendosi carico di tutte le relazioni tibetane con l'estero.

La grande rivolta del 1959 del popolo di Lhasa contro le violenze e le intolleranze dell'esercito fu duramente repressa dalle truppe di Pechino, che provocarono circa 65.000 vittime e deportarono altre 70.000 persone. Il Dalai Lama fuggì in India insieme al suo governo, a una parte dell'élite feudale e ad alcuni monaci, giudicando rischiosa la permanenza e ritenendo vani ulteriori sforzi di mediazione con i governanti cinesi. La risposta cinese fu l'occupazione integrale del Tibet e la dichiarazione di illegalità del governo tibetano.

Il Tibet fu frazionato, buona parte dei suoi territori fu assegnata alle province cinesi del Qinghai, del Gansu, del Sichuan e dello Yunnan. La parte rimasta divenne nel 1964 la Regione Autonoma del Tibet, una provincia della Cina a statuto speciale.

In seguito, la rivoluzione culturale, che ebbe luogo dal 1966 al 1976, portò studenti ed estremisti cinesi, agitati dal regime comunista, a condannare come anti-rivoluzionaria ogni forma d'opinione diversa dalla loro: gran parte dei monasteri, dei templi e di ogni altra forma d'arte vennero distrutti.

Il Dalai Lama non è più ritornato nell'altopiano ed i vari appelli, le conferenze e gli incontri segreti organizzati dalla comunità in esilio non hanno apportato sostanziali cambiamenti né hanno smosso la comunità internazionale, i cui governi riconoscono la sovranità della Cina sul paese. Nel gennaio del 2000 fuggì dal Tibet anche uno dei due candidati alla carica di Karmapa Lama (la terza più alta personalità del lamaismo dopo il Dalai Lama e il Panchen Lama), che attraversò a piedi l'Himalaya per incontrare il Dalai Lama a Dharamsala in India, sede del governo tibetano in esilio.

Nell'aprile del 2008, sono scoppiate dure proteste in alcune città del Tibet che sono state represse dal governo di Pechino con l'uso della forza. Sono stati numerosi i casi rilevati in Tibet di violazioni della dignità umana da parte dell'esercito di occupazione.

Secondo il Dalai Lama in Tibet sta avvenendo un genocidio culturale non preso in considerazione dal mondo occidentale.

I cinesi del Tibet (da LIMES)

Se la montagna è ancora dominata dai tibetani, le città sono completamente cinesi...

La municipalità di Lhasa ha poco più di 500 mila abitanti, 238 mila dei quali vivono nell’area urbana. A questi vanno aggiunte quasi centomila persone della cosiddetta popolazione fluttuante. Secondo i dati forniti dalle stesse autorità, circa la metà degli abitanti della città propriamente detta sono cinesi han. In tutta la Regione autonoma, secondo le statistiche ufficiali, è di etnia tibetana il 92% della popolazione. Però solo coloro che stanno per più di nove mesi all’anno sono registrati come «residenti». I cinesi d’inverno chiudono negozi, alberghi e ristoranti e tornano nei loro paesi d’origine.

In estrema sintesi si può affermare che nella Regione autonoma del Tibet c’è una fortissima immigrazione cinese, arrivata alla seconda generazione. L’esercito è presente in modo discreto, ma in forze. L’opposizione dei tibetani non si esprime in forme eclatanti ma è generalizzata. La cultura tibetana, con la relativa liberalizzazione religiosa degli ultimi anni e con una atmosfera generalmente più aperta (molti fatti recenti indicano che l’attuale dirigenza di Pechino sta facendo dei passi indietro) è sopravvissuta e si è rinforzata, anche al di fuori della Regione autonoma. Il buddhismo – come anche il taoismo e, in misura nettamente inferiore ma significativa, il cristianesimo – sta conoscendo una diffusione di massa in tutta la Cina. Per quanto riguarda i tibetani, questo si traduce nella conservazione di una forte identità culturale.

La bandiera del Tibet

La bandiera del Tibet è stata introdotta nel 1912 dal XIII Dalai Lama, ed è il risultato dell'unione delle bandiere militari di alcune province. È stata utilizzata come bandiera militare del Tibet fino al 1950, anno in cui è stata dichiarata illegale dal governo cinese e sostituita con la bandiera della Cina.

Attualmente la bandiera tibetana è utilizzata del governo tibetano in esilio con sede a Dharamsala (India), ed è bandita in territorio cinese perché considerata simbolo di separatismo.




Il disegno è costituito da:
  • Una montagna innevata che rappresenta il Tibet, anche conosciuto come "paese delle nevi". 
  • Sei raggi rossi attraverso il cielo blu, simbolo delle sei tribù (Se, Mu, Dong, Tong, Dru e Ra) che secondo le leggende diedero origine al popolo del Tibet. 
  • Un sole splendente che rappresenta la libertà, la felicità materiale e spirituale e la prosperità per tutti gli esseri viventi in terra tibetana. 
  • Due leoni di montagna per simboleggiare l'unione tra la vita secolare e la vita spirituale. 
  • I "tre Gioielli" del buddhismo: il Buddha, il Dharma ed il Sangha. 
  • L'altro emblema fra i leoni rappresenta la pratica delle dieci virtù e dei sedici modi di condotta umani. 
  • Il bordo giallo, presente su tre lati, simboleggia gli insegnamenti del Buddha.

Il Tibet nel diritto internazionale
(da http://www.italiatibet.org)

Michael C. van Walt van Praag, in appendice ad un suo articolo scritto per la rivista International Relations, riassume i principali aspetti della questione tibetana sotto il profilo del diritto internazionale.

Il governo tibetano in esilio, guidato da Sua Santità il Dalai Lama, ha costantemente sostenuto che il Tibet si trova sotto l'illegale occupazione cinese in quanto la Cina ha invaso questo paese, politicamente indipendente, nel 1949/50. La Repubblica Popolare Cinese di contro insiste nel sostenere che i suoi rapporti con il Tibet sono semplicemente un suo affare interno poiché il Tibet è ed è stato per secoli parte integrante della Cina. La questione dello status del Tibet è essenzialmente una questione legale ma di grande rilevanza politica.
La Repubblica Popolare Cinese non rivendica alcun diritto di sovranità sul Tibet come conseguenza della sottomissione militare e dell'occupazione del paese in seguito all’invasione armata del 1949/50. Difficilmente infatti potrebbe sostenere questa tesi poiché rifiuta categoricamente, in quanto illegale, ogni rivendicazione di sovranità basata sulla conquista, l'occupazione o l'imposizione di trattati ingiusti avanzate da altri Stati. La Repubblica Popolare cinese reclama invece il suo diritto sul Tibet asserendo che il Tibet è diventato parte integrante della Cina settecento anni fa.

Le origini

Sebbene la storia dello stato tibetano abbia inizio nel 127 a.C. quando prese il potere la dinastia Yarlung, il Paese, come lo conosciamo oggi, fu unificato per la prima volta nel settimo secolo sotto il re Song-tsen Gampo ed i suoi successori. Durante i tre secoli seguenti il Tibet fu una delle più grandi potenze dell'Asia come testimonia l’iscrizione riportata su una colonna alla base del palazzo del Potala, a Lhasa, confermata dai poemi cinesi del periodo Tang. Inoltre, un trattato di pace fra la Cina ed il Tibet fu siglato negli anni 821-823. In esso si delineano i confini tra i due paesi e si afferma che "i tibetani potranno vivere felici nel Tibet ed i cinesi in Cina".

L'influenza mongola

Nel tredicesimo secolo quando l'impero mongolo di Gengis Khan si espanse ad ovest verso l'Europa e ad est verso la Cina, i massimi esponenti della fiorente scuola di buddhismo tibetano Sakya stipularono un accordo con i dirigenti mongoli al fine di evitare la conquista del Tibet. Lama tibetani si impegnarono a garantire la fedeltà politica, la benedizione religiosa ed insegnamenti in cambio di patrocinio e protezione. Il legame religioso divenne così importante che quando, decenni più tardi, Kublai Khan conquistò la Cina instaurando la dinastia Yuan (1279-1368), invitò il capo della scuola Sakya a ricoprire la carica di Precettore Imperiale e Supremo Pontefice del suo impero.
Il rapporto tra mongoli e tibetani, continuato fino al ventesimo secolo, testimonia la stretta affinità razziale, culturale e religiosa tra i due popoli dell'Asia centrale. L'Impero Mongolo fu un impero di importanza mondiale e, qualunque fosse la relazione tra i suoi governanti ed i tibetani, i mongoli non favorirono mai in alcun modo l'integrazione del Tibet con la Cina o con la sua amministrazione.
Il Tibet ruppe i propri legami politici con gli imperatori Yuan nel 1350, prima che la Cina riguadagnasse la sua indipendenza dai mongoli. Negli anni che seguirono fino al diciottesimo secolo, il Tibet non subì alcuna influenza straniera.

Rapporti con Manciù e Gorkha

Il Tibet non stabilì alcun legame con la dinastia cinese Ming (1336-1664). Anzi, il V° Dalai Lama, che nel 1642 costituì il suo governo sovrano sul Tibet con l'aiuto di un mecenate mongolo, strinse stretti rapporti religiosi con gli imperatori Manciù che conquistarono la Cina instaurando la dinasta Qing (1644-1911). Il Dalai Lama acconsentì a diventare guida spirituale dell'imperatore Manciù ed in cambio ne accettò la protezione. Questo rapporto di "guida spirituale-protettore" (in tibetano Choe-Yoen), che i Dalai Lama mantennero anche con alcuni principi mongoli e nobili tibetani, costituì il solo legame formale tra i Tibetani ed i Manciù durante la dinastia Qing e non comportò alcuna influenza negativa sull'indipendenza del Tibet.
A livello politico alcuni potenti imperatori Manciù riuscirono ad esercitare una certa influenza sul Tibet. Tra il 1720 ed il 1792, gli imperatori Kangxi, Yong Zhen e Quianlong inviarono quattro volte truppe imperiali in Tibet al fine di difendere il Dalai Lama da invasioni da parte dei mongoli e dei Gorkha oppure da agitazioni interne. Tali spedizioni fornirono agli imperatori Manciù il pretesto per esercitare una certa influenza sul Tibet. Vennero così inviati a Lhasa, capitale del Tibet, rappresentanti dell'imperatore alcuni dei quali, in seguito, esercitarono con successo pressioni sul governo tibetano, specialmente per quanto riguarda la politica estera. Nel momento di massima espansione dell'influenza Manciù, la posizione del Tibet non è stata mai molto diversa da quella che può verificarsi tra una superpotenza e uno stato satellite. Una situazione, quindi, che, sebbene politicamente rilevante, non annulla l'indipendenza dello stato più debole. Questo particolare rapporto durò alcuni decenni. Il Tibet non fu mai incorporato nell'Impero Manciù, tanto meno nella Cina, e continuò a portare avanti, di propria iniziativa, le relazioni con gli stati vicini.
L'influenza Manciù non durò a lungo ed era completamente esaurita quando gli Inglesi, che per un breve periodo avevano occupato Lhasa, conclusero con i tibetani, nel 1904, un trattato bilaterale, noto come Convenzione di Lhasa. Nonostante tale perdita d’influenza, il governo imperiale di Pechino continuò a reclamare una qualche autorità sul Tibet, soprattutto per quanto riguardava le relazioni estere di questo paese, autorità che il governo imperiale britannico, nei suoi rapporti con Pechino e San Pietroburgo, definì come "controllo politico“. Le forze imperiali tentarono di ristabilire una supremazia reale sul Tibet invadendo il paese ed occupando Lhasa nel 1910. A seguito della rivoluzione cinese del 1911 e della caduta dell'impero Manciù, le truppe di Pechino si arresero all'esercito tibetano e rientrarono in Cina in ossequio ad un trattato di pace tra la Cina ed il Tibet. Il Dalai Lama riaffermò la più completa indipendenza sia all'interno emanando un proclama su tale status, sia all'esterno nei contatti con altri governi e stipulando un trattato con la Mongolia.

Il Tibet nel ventesimo secolo

Lo status del Tibet, dopo il ritiro delle truppe Manciù, non è oggi oggetto di seri motivi di discussione. Qualunque fossero i legami tra il Dalai Lama e gli imperatori Manciù della dinastia Qing, essi ebbero fine con la caduta dell'impero e della dinastia. Tra il 1911 ed il 1950 il Tibet impedì con successo l'instaurarsi di indebite ingerenze straniere ed operò, sotto ogni punto di vista, come uno stato completamente indipendente.

Il Tibet intrattenne relazioni diplomatiche con il Nepal, il Bhutan, la Gran Bretagna e più tardi con l'India indipendente. Le relazioni con la Cina si mantennero tese. I cinesi intrapresero una guerra di confine con il Tibet e nello stesso tempo fecero pressioni ufficiali affinché il Paese delle Nevi confluisse nella Repubblica cinese reclamando sempre ed ovunque che i tibetani erano una delle cinque razze cinesi.

Nel tentativo di attenuare la tensione sino-tibetana, gli Inglesi convocarono, nel 1913 a Simla, una conferenza tripartita nella quale i tre stati si incontrarono a pari condizioni. Come fece presente il delegato inglese alla sua controparte cinese, il Tibet prese parte alla conferenza come una nazione indipendente che non riconosceva alcun legame con la Cina. La conferenza non ebbe un esito positivo poiché non riuscì a risolvere le controversie esistenti tra Cina e Tibet ma fu importante perché riaffermò l'amicizia anglo-tibetana, suggellata da una accordo commerciale tra i due paesi e dalla sistemazione di alcuni problemi di confine. Nella dichiarazione congiunta la Gran Bretagna ed il Tibet si impegnarono a non riconoscere mai la sovranità cinese o altri diritti speciali sul Tibet a meno che la Cina non avesse sottoscritto la Convenzione di Simla che, tra l'altro, garantiva al Tibet una più ampia estensione, l’integrità territoriale e la piena autonomia. Poiché la Cina non firmò mai la Convenzione, rimane in vigore quanto espresso nella dichiarazione congiunta.
Il Tibet intrattenne le proprie relazioni internazionali sia attraverso contatti con missioni diplomatiche britanniche, cinesi, nepalesi e bhutanesi a Lhasa, sia inviando proprie delegazioni governative all'estero. Quando l'India divenne indipendente la missione britannica a Lhasa fu sostituta da una missione indiana. Durante la seconda guerra mondiale il Tibet assunse una posizione neutrale nonostante forti pressioni esercitate dagli Stati Uniti, dalla Gran Bretagna e dalla Cina affinché venisse consentito il passaggio di armamenti in territorio tibetano.

Il Tibet non ha mai intrattenuto rapporti con molti stati, ma quelli con i quali ha avuto contatti hanno trattato il Tibet come uno stato sovrano. Di fatto il suo status internazionale non era affatto differente da quello del Nepal. Così quando il Nepal, nel 1949, chiese di diventare membro delle Nazioni Unite citò, tra l'altro, le sue relazioni diplomatiche con il Tibet a sostegno della sua piena personalità internazionale.

L'invasione del Tibet
Il momento critico della storia del Tibet sopraggiunse nel 1949 quando l'esercito di Liberazione della Repubblica Popolare Cinese invase il paese. Dopo aver sconfitto il piccolo esercito tibetano ed aver occupato metà del territorio, nel maggio 1951 il governo cinese impose al governo tibetano il cosiddetto "Accordo in 17 punti per la liberazione pacifica del Tibet". Tale accordo, poiché sottoscritto forzatamente, non ha validità secondo il diritto internazionale: la presenza di 40.000 militari, la minaccia di un'imminente occupazione di Lhasa e la prospettiva di una totale eliminazione del Tibet lasciavano ai tibetani pochissime possibilità di scelta.

Conclusioni

Nel corso dei suoi 2.000 anni di storia, il Tibet è stato soggetto all’influenza straniera solo per brevi periodi nel corso del tredicesimo e diciottesimo secolo. Pochi paesi indipendenti possono oggi rivendicare un passato così illustre. Come ha fatto notare l'ambasciatore d'Irlanda alle Nazione Unite nel corso di un dibattito dell'Assemblea Generale sulla questione del Tibet... "per migliaia di anni o in ogni caso per almeno duemila anni, [il Tibet] è stato libero e ha avuto il pieno controllo dei suoi affari interni quanto e come altre nazioni rappresentate in questa Assemblea ed ancora mille volte più libero di quanto potessero essere molte delle Nazioni qui presenti..." Nel corso dei dibattiti alle Nazioni Uniti molti altri Paesi hanno fatto dichiarazioni che riflettono analoghi riconoscimenti dello status indipendente del Tibet. Così, per esempio, il delegato delle Filippine ha dichiarato: "È chiaro che alla vigilia dell’invasione, nel 1950, il Tibet non era soggetto al governo di nessun Paese straniero." Il delegato della Thailandia ha ricordato all'Assemblea che "...la maggioranza degli Stati rifiuta l'opinione che il Tibet sia parte della Cina." Gli Stati Uniti si sono uniti alla maggioranza degli altri Stati membri delle Nazioni Uniti nel condannare l'aggressione cinese e l'invasione. Nel 1959, 1960 ed ancora nel 1965 l'Assemblea Generale delle Nazioni Uniti ha approvato tre risoluzioni (1353 [XIV], 1723 [XVI] e 2079 [XX]) che condannano le violazioni dei diritti umani da parte dei cinesi e richiamano la Cina a rispettare ed a garantire i diritti umani e le libertà fondamentali del popolo tibetano incluso il diritto all'autodeterminazione.
Dal punto di vista giuridico il Tibet non ha mai perso la sua caratteristica di stato. È una nazione indipendente oppressa da una occupazione illegale. Né l'invasione militare cinese né l'occupazione continua da parte dell'Esercito di Liberazione della Repubblica Popolare della Cina hanno potuto trasferire la sovranità del Tibet alla Cina. Come sottolineato in precedenza il governo cinese non ha mai rivendicato di aver acquisito la sovranità sul Tibet per mezzo della conquista. Infatti anche la Cina riconosce che l'uso o la minaccia della forza (eccetto le condizioni eccezionali stabilite dalla Corte delle Nazioni Unite), l'imposizione di un trattato ingiusto e la continua, illegale occupazione di un Paese non possono in alcun modo garantire all'invasore il diritto di proprietà del territorio occupato. Le rivendicazioni cinesi sono basate esclusivamente sul preteso assoggettamento del Tibet da parte di pochi potenti governanti cinesi durante il tredicesimo ed il diciottesimo secolo.


La rivolta olimpica in Tibet (marzo-maggio 2008)  

da LIMES

Il 14 marzo è esplosa la rivolta tibetana contro i cinesi a Lhasa, la capitale della regione autonoma del Tibet, che da decenni subisce un processo di assimilazione economica, etnica e culturale alla Cina.

A marzo ricorrevano gli anniversari della dura repressione del 1989 e della fuga del Dalai Lama dal Tibet nel 1959. Ciononostante l'apparato di sicurezza cinese è apparso preso di sorpresa proprio nell'anno delle Olimpiadi di Pechino, o forse proprio a causa delle Olimpiadi ha ritardato e frenato la propria reazione.

Dopo la risposta cinese, soprattutto contro i monaci buddisti tibetani, manifestazioni, rivolte e scontri sono avvenuti in tutto il Tibet storico, che si estende anche alle regioni del Sichan e del Gansu.

L'anno olimpico da vetrina per il boom si sta dimostrando il possibile tallone d'achille di una potenza ancora fragile. Il percorso internazionale della fiaccola olimpica è stato il terreno di battaglia per molti gruppi anti-cinesi, dai filo tibetani ai difensori dei diritti umani, dai sostenitori della causa degli uiguri nel Xinjiang cinese ai critici del Sudan filo-cinese sulla crisi del Darfur, per vincere la battaglia mediatica contro il regime di Pechino.

La rivolta è stata pure una contestazione al Dalai Lama da parte di una fetta importante dell’opinione pubblica tibetana, in particolare degli Students for Free Tibet, nati a New York nel 1994, un gruppo indipendentista diramato in 36 paesi e con molti sostenitori non solo tra i giovani ma anche tra i monaci tibetani.

Una sfida non solo a Pechino quindi, ma anche al Dalai Lama è poi la marcia verso il Tibet, cominciata il 10 marzo da Dharamsala, sede del Dalai Lama in India, per penetrare in patria a ridosso delle Olimpiadi.

Pechino tradita dai suoi monaci (di B. Raman)

Il governo centrale era convinto di avere sotto controllo i monasteri, invece proprio i monaci più giovani - ordinati sotto il controllo degli apparati di sicurezza cinesi - sono in prima fila nelle proteste. Si prevedono nuove dimostrazioni con l'arrivo della fiaccola olimpica in Tibet.

La rivolta dei monaci buddisti in Tibet ha rappresentato uno shock per Pechino. La leadership cinese era convinta che l'ultradecennale politica di controllo sui monasteri avesse funzionato (il presidente Hu Jintao è stato segretario locale del partito comunista, ndr).

Invece in prima fila nelle dimostrazioni erano collocati i monaci più giovani, proprio quelli cioè che sono stati ordinati sotto la stretta supervisione del Partito Comunista.

Dopo la non interferenza nelle questioni religiose dal 1951 al 1958 e la fase di brutale repressione a partire dal 1959, nel 1979 Deng Xiaoping cambiò la politica del regime: riaprì i monasteri ma obbligò i novizi a sottoporsi a corsi tenuti dal Partito Comunista e soprattutto al controllo degli apparati di sicurezza.

Inoltre furono fatti ordinare monaci di etnia han, di modo che nessun monastero avesse una esclusiva presenza di monaci tibetani. La presenza di elementi cinesi aveva il chiaro scopo di spiare le attività dei monaci.

Invece gli infiltrati di Pechino non sono stati in grado di mettere in allarme le autorità cinesi e i monaci più giovani, quelli in teoria fedeli a Pechino, sono quelli meglio collegati con il Congresso della gioventù tibetana, l'organizzazione che con maggiore forza chiede l'indipendenza del Tibet anche contro il volere del Dalai Lama.

I monaci e altri militanti affrontano le forze di sicurezza inneggiando al Dalai Lama e al suo ritorno. A questi si affiancano slogan a favore dell'indipendenza - dove è maggiore l'influenza del Congresso della gioventù tibetana - o della democrazia dove questa organizzazione è meno presente.

Se il 14 marzo i dimostranti tibetani a Lhasa hanno attaccato e danneggiato gli han cinesi e le loro proprietà, a partire dal 27 marzo i rivoltosi si sono diretti soprattutto contro gli apparati del governo, del Partito Comunista e delle forze di sicurezza.

Sempre a partire dal 27 marzo ci sono stati molti più scontri e dimostrazioni nelle regioni del Sichan e del Gansu (con una forte presenza di tibetani, ndr) che nel Tibet.

Le manifestazione successive al 27 marzo sono state innescate dalla continue ondate di arresti dei partecipanti agli incidenti del 10-18 marzo e dal lancio del programma di "rieducazione patriottica" in tutti i monasteri e gli istituti scolastici. Il programma prevede che i monaci gridino in pubbico slogan contro il Dalai Lama e affermino la loro lealtà alla Cina.

Le forze di sicurezza cinesi perquisiscono le case alla ricerca di immagini del Dalai Lama, che vengono poi bruciate.

Le dimostrazioni intanto continuano. L'ultima confermata a Lhasa è del 29 marzo, ma il 3 aprile almeno un monaco tibetano è stato ucciso e molti altri monaci e studenti feriti quando la polizia cinese ha aperto il fuoco contro un gruppo di almeno mille monaci vicino al monastero di Tongkor, nell'area di Kardze. Secondo gruppi in esilio i morti sono stati almeno 15. I dimostranti chiedevano il rilascio di due monaci arrestati in precedenza. Nella stessa area un'altra protesta ha avuto luogo il 5 aprile.

Pechino rischia la carta del nazionalismo han (di Emanuele Scimia)

La crisi in Tibet costringe la Cina a spericolati esercizi di equilibrismo politico, schiacciata come è tra le richieste della comunità internazionale, che invita Pechino ad aprire un dialogo con il Dalai Lama, e gli umori della maggioranza han (circa il 92% della popolazione), che preme per l’uso della mano pesante contro le intemperanze etniche.

Il nazionalismo han è fomentato dai media di regime, che dipingono le rivolte in Tibet e nelle province limitrofe come esplosioni di violenza separatista orchestrate dal Dalai Lama. Per i cinesi han l’integrità territoriale della Cina è un dogma. La copertura mediatica della crisi tibetana ha suscitato tra la maggioranza cinese l’impressione che il governo non abbia affrontato con la dovuta decisione i disordini, cedendo in un primo momento alle pressioni della comunità internazionale.

Chiamata a scegliere tra il raffreddamento del fronte interno e la promozione della sua immagine internazionale nell’anno delle Olimpiadi, pare che Pechino stia ora propendendo per il primo dei due imperativi. Ne sono segno evidente la militarizzazione di tutte le aree appartenenti al Tibet storico e del Xinjiang e i piani per il rafforzamento delle organizzazioni di base del Partito comunista a livello locale. Gli incitamenti alla "guerra di popolo" e la sottoposizione della dissidenza a campagne di rieducazione patriottica, ricordano ad alcuni la retorica della rivoluzione culturale.

“Sono degli ingrati”. Così gli etnici han considerano i tibetani e le altre minoranze in Cina. Li incolpano di voler attentare all’unità nazionale nonostante il governo di Pechino abbia investito molte risorse per sviluppare le loro regioni. I pericoli di una polarizzazione razziale nel Paese sono stati adombrati da un gruppo di importanti intellettuali cinesi di stanza all’estero, che hanno accusato Pechino di voler fomentare l’odio interetnico, occultando all’opinione pubblica cinese le rivendicazioni dei tibetani. Per la diaspora tibetana, invece, anche tra le comunità han e hui insediate in Tibet cominciano ad affiorare segnali di insofferenza per il clima di repressione instaurato dalle forze di sicurezza di Pechino.

In realtà, il nazionalismo cinese trova la sua tradizionale valvola di sfogo in un nemico esterno. Il Tibet e il Xinjiang fino a ora erano considerati problemi di secondaria importanza. La riunificazione con Taiwan e la disputa con Tokyo sulla memoria storica dell’occupazione giapponese sono le questioni maggiormente sentite. Il revisionismo storico di Pechino, poi, arma il popolo cinese di altre suggestioni, come le rivendicazioni su buona metà della penisola coreana (la sezione a nord del fiume Hangan), su porzioni della Siberia russa e su parte dell’India (in pratica l’intero Stato indiano dell’Arunachal Pradesh).

La retorica nazionalista cinese ha riscoperto la figura di Sun Yat-sen, il leader che ha guidato nel 1911 la rivoluzione anti-imperiale. Considerato uno dei padri della patria, per Sun i principali gruppi etnici della Cina – han, manchu, mongoli, hui e tibetani – costituivano le sue ‘cinque dita’. Fu il primo a concepire l’idea di una ferrovia che collegasse il Tibet alla Cina orientale, così da legare definitamene il suo destino a quello dell’ex Impero di Mezzo.

Il pericolo per il regime cinese è che il nazionalismo han si trasformi nel tempo in un’idra dalle cento teste difficile da controllare. Anche più delle quotidiane rivolte nelle aree rurali, frutto degli enormi squilibri sociali che caratterizzano il Paese. Oppure delle campagne contro la corruzione dei dirigenti locali del Partito, o di quelle contro le restrizioni alla libertà religiosa e di espressione.

Già nel 2005, le autorità cinesi sperimentarono le incognite connesse con la manipolazione del sentimento nazionalista han. All’epoca migliaia di cinesi protestarono contro le ripetute visite dell’allora primo ministro giapponese Yunichiro Koizumi al santuario di guerra Yasukuni (dove sono sepolti alcuni criminali di guerra nipponici). Pechino riuscì a riportare l’ordine a fatica, evitando così un incidente diplomatico con Tokyo.

La sfida autonomista lanciata dal Dalai Lama obbliga la Cina a rischiare la carta nazionalista. Le rivendicazioni della guida spirituale del buddismo tibetano poggiano su basi legali concrete, perché a differenza di quelle indipendentiste non intaccano formalmente l’unità dello Stato. La costituzione cinese riconosce infatti il diritto all’autonomia e al self-government in aree abitate da minoranze etniche, che costituiscono comunità omogenee. Concedere l’autonomia al Tibet, però, significherebbe per Pechino rimettere in discussione tutto il suo sistema di potere: il regime a partito unico e l’organizzazione amministrativa statale.

Con o contro il Dalai Lama (di di Lucio Caracciolo)

Il Dalai Lama, che conosce bene e non disprezza i cinesi, è consapevole che spente le luci olimpiche la vendetta di Pechino sarà feroce. Per questo ha aperto un nuovo canale di dialogo sotterraneo con il regime di Hu Jintao, i cui frutti peraltro tardano a maturare. Perché la stessa leadership è divisa fra fautori delle maniere spicce – interpretando il sentimento della grande maggioranza degli han, l’etnia cinese dominante, costoro vorrebbero infliggere ai tibetani una lezione definitiva - e avvocati dell’approccio soft, almeno fino alle Olimpiadi. Per questi ultimi la demonizzazione del Dalai Lama è un errore, dato che nel campo tibetano non esiste personalità altrettanto autorevole né altrettanto moderata.

Il tratto essenziale di questa rivolta sta però nella contestazione del Dalai Lama da parte di una fetta importante dell’opinione pubblica tibetana, a cominciare dall’emigrazione americana. E’ il caso degli Students for Free Tibet, nati a New York nel 1994, un gruppo indipendentista diramato in 36 paesi. E dei protagonisti della marcia verso il Tibet, cominciata il 10 marzo da Dharamsala, sede del Dalai Lama in India, per penetrare in patria a ridosso delle Olimpiadi. O, sul fronte intellettuale, dello scrittore Jamyang Norbu, che elogia le migliaia di tibetani, monaci compresi, morti combattendo armi in pugno nella lunga lotta per la libertà della loro terra.

La critica al Dalai Lama esprime una tendenza sedimentata negli anni e ormai venuta allo scoperto. Il pacifismo, la non violenza, la disponibilità al dialogo non hanno portato alcun risultato concreto, osservano i fautori della lotta armata. Dunque in casi estremi – cioè nel Tibet di oggi – “l’azione violenta sembra essere non soltanto l’unica soluzione possibile, ma anche la più eroica e saggia” (Norbu).

Dati i rapporti di forza, è escluso che il Tibet indipendente possa scaturire dalla canna del fucile. Almeno altrettanto improbabile è che si formi pacificamente, per gentile concessione di Pechino. Non si riesce ad immaginare un regime cinese – non importa se comunista o relativamente democratico – che ceda spontaneamente un territorio così vasto, strategico, carico di valore simbolico. E’ per questo che il Dalai Lama raccomanda ai tibetani di “non sviluppare un sentimento anticinese: che lo vogliamo o no, dobbiamo vivere fianco a fianco”.

Non resterebbe che l’autonomia nell’ambito della Cina. Ma una vera autonomia senza indipendenza è possibile? Nel caso in questione, la storia finora risponde di no. Vedremo se in futuro prevarrà la fantasia. Ossia quella dose di realismo che potrebbe indurre le parti a un compromesso, a partire dall’integrità territoriale della Repubblica Popolare Cinese. O se invece la fragilità latente dell’impero non sfocerà nella disintegrazione dello Stato, riportando l’aspirante superpotenza del XXI secolo alla condizione di terra contesa fra signori della guerra e potenze esterne. Cioè a quello che era meno di un secolo fa.

Pechino cambia strategia? (di Emanuele Scimia)

La crisi in Tibet è per la Cina un problema di integrità territoriale. Una minaccia che rischia di minare le fondamenta dell’attuale sistema di governo centralizzato e burocratico a guida comunista, e di rimettere in discussione le politiche di nation-building (rivolte alla costruzione di uno Stato nazionale cinese multietnico e multiculturale) inaugurate alla fine dell’Ottocento dalla dinastia imperiale Qing e portate avanti, poi, sia dalla Repubblica nazionalista sia dal Partito comunista cinese (Pcc).

La Cina considera la battaglia contro il separatismo etnico vitale per la sua stessa esistenza. Per vincerla ha recuperato i vecchi strumenti della propaganda rivoluzionaria: i richiami alla "guerra di popolo" contro i separatisti come il Dalai Lama e la manipolazione del sentimento nazionalista cinese, in particolare contro le indebite intromissioni dei governi e delle opinioni pubbliche occidentali. Dopo i fatti di Lhasa del 10 marzo scorso, in molti avevano formulato l’ipotesi che il regime cinese avrebbe persino sacrificato la sua immagine "olimpica" pur di scongiurare ogni minaccia alla sua stabilità interna.

E’ certamente fondata l’obiezione che l’apertura cinese alla guida spirituale tibetana possa rientrare in una operazione di "marketing diplomatico’" architettata da Pechino per raffreddare la crescente riprovazione della comunità internazionale. Osservazione confermata dal fatto che, nonostante le discussioni in corso, i media di Stato cinesi continuino la loro martellante campagna di diffamazione nei confronti del Dalai Lama, e che le alte sfere di Pechino abbiano ordinato delle vere e proprie campagne di "rieducazione" patriottica e ideologica dei rivoltosi e dei quadri locali del Partito.

Tra le pieghe di questi sviluppi, però, è possibile scorgere un cambiamento nell’approccio cinese alla querelle tibetana. Che Pechino riapra al Dalai Lama non è cosa di per sé trascurabile, a prescindere dalle reali intenzioni cinesi. Dimostra che le pressioni occidentali per una soluzione negoziata della crisi, come le veementi proteste che hanno accompagnato il passaggio della torcia olimpica in diverse tappe del suo percorso, hanno colto nel segno. La Cina non si è pertanto arroccata del tutto, come molti credevano (ad esempio Jacques Rogge, il presidente del Comitato olimpico internazionale), dinanzi agli sforzi di internazionalizzazione della crisi tibetana.

Un cambio di strategia figlio di una inevitabile riflessione: che la politicizzazione della kermesse olimpica si sta trasformando in uno smacco per la Cina, per i suoi sforzi di apparire come una pacifica potenza in ascesa nell’agone internazionale e una ‘società armonica’ all’interno dei propri confini. Una Cina presa in contropiede, perché criticata non solo dagli Stati Uniti (in prima linea da tempo sul Tibet e sul rispetto dei diritti umani nell’ex Impero di Mezzo), ma anche dai "docili europei" e dagli "amici" (il premier australiano Kevin Rudd).

Pechino ha sempre rimarcato negli ultimi anni che il suo primario obiettivo è la crescita economica. La crisi in Tibet – unita a quella del sistema economico mondiale – rischia di mettere però in pericolo i suoi piani.

Sulle colonne dello Straits Time, Wang Lixiong ha spiegato come il Pcc sia cambiato negli ultimi 30 anni, dopo aver sostituito il suo approccio ai problemi puramente ideologico con uno più pragmatico e flessibile. Secondo Wang, a Pechino sono consapevoli che avrebbero solo da perdere da un confronto con la comunità internazionale sul Tibet.

La Cina gioca dunque sul filo, stretta tra la necessità di rispondere alle istanze della comunità internazionale e quella di contenere le pressioni provenienti dall’interno.

Un campo su cui misurare la flessibilità strategica di Pechino è quello delle relazioni con Washington. Da una parte, infatti, le autorità cinesi accusano organizzazioni governative americane come la National Endowment for Democracy di fomentare in modo occulto la rivolta tibetana con il chiaro intento di indebolire – se non proprio di distruggere – l’unità politica cinese. Dall’altro, la Cina continua a rafforzare la sua cooperazione diplomatica e militare con gli Usa.

Pechino e Washington sono ora impegnate in negoziati per porre fine a una disputa sorta nel novembre 2007, quando le autorità cinesi negarono l’accesso al porto di Hong Kong alla portaerei Usa Kitty Hawk e ad altri due navigli militari americani (secondo alcuni, in risposta all’onorificenza conferita al Dalai Lama dal Congresso degli Stati Uniti il mese precedente). Accesso che fino a quel momento era stato sempre garantito alle navi militari americane.

Durante l’ultimo round negoziale, i cinesi hanno proposto di allargare la cooperazione militare alle esercitazioni navali anti-terrorismo, sul modello di quelle multilaterali che annualmente si svolgono nel sud-est asiatico sotto la supervisione americana e thailandese (Cobra Gold wargames, ndr).

La crisi in Tibet ha riaperto negli Stati Uniti la discussione sul "pericolo cinese" (offuscata negli ultimi anni dalla guerra al terrorismo e dal conflitto in Iraq), in particolare sullo squilibrio commerciale accumulato da Washington nei confronti di Pechino. Incalzato dal Congresso e dall’opinione pubblica nazionale, il nuovo inquilino della Casa Bianca – a prescindere dalla sua appartenenza politica – potrebbe decidere di rivedere le relazioni economiche con la Cina, su questioni cruciali come la rivalutazione dello yuan e la tutela della proprietà intellettuale. Come potrebbe cedere alle suggestioni protezioniste. E, a Pechino, di questo, hanno piena coscienza. 


La prima torcia umana: l'immolazione di Thích Quảng Dùc

Il Vietnam alla fine degli anni 50

Durante il regime di Ngô Dình Diém in Vietnam la popolazione buddhista era stimata dal 70% al 90% del totale. Ngô Dình Diém e la sua famiglia facevano parte di quella esigua minoranza convertita durante il periodo del dominio coloniale francese. Per questo motivo Diém introdusse una serie di politiche volte a favorire il cattolicesimo a discapito del buddhismo e delle altre minoranze religiose: nel 1959 il Vietnam del Sud fu dichiarato "sotto la protezione" della santa cristiana Maria, quindi in campo legale si introdusse l'abolizione del divorzio, il divieto dell'uso dei contraccettivi e la non legalità dei rapporti extra-coniugali. Altre misure riguardarono la creazione dell'istituto educativo di Vinh-Long, deputato alla formazione dei quadri dirigenti del regime, in cui furono scelti come insegnanti solo preti cattolici; la ridistribuzione delle terre, la possibilità di fare carriera nell'esercito: i cattolici furono favoriti rispetto agli appartenenti ad altre confessioni religiose. Fu durante questo regime che la Chiesa cattolica divenne il più grande proprietario di latifondi di tutto il Vietnam del Sud.

Ai preti cattolici fu concesso di costituire delle bande armate, mentre ai villaggi che dovevano essere evacuati, in base alle politiche di lotta contro la guerriglia comunista, si concedeva di restare nelle proprie terre solo qualora si fossero convertiti al cattolicesimo. In tutto il Vietnam del Sud rurale si susseguirono assalti ai monasteri buddhisti, con devastazioni, senza che la polizia intervenisse o identificasse i responsabili. Il fratello di Ngô Dình Diém, Ngô Dình Tuch, vescovo cattolico, fu nominato dal Vaticano vicario apostolico per il Vietnam. La bandiera buddhista fu vietata in tutto il paese, mentre a tutte le manifestazioni ufficiali sventolava la bandiera vaticana assieme a quella nazionale.

Ai primi di maggio del 1963 in occasione della festa del Vesak, i buddhisti vietnamiti sfidando il governo, scesero in massa per le strade chiedendo l'uguaglianza religiosa e sventolando le bandiere buddhiste. A Hué, seconda città del Vietnam e governata da un fratello del presidente, la polizia sparò sulla folla uccidendo nove persone. Ufficialmente il governo incolpò i viet cong esacerbando ancor di più gli animi e provocando altre manifestazioni.

Le richieste buddhiste al governo furono formalizzate in cinque punti:

  1. ottenere il permesso di utilizzare la bandiera buddhista in pubblico; 
  2. garantire al buddhismo trattamento eguale al cattolicesimo; 
  3. scarcerazione dei buddhisti arrestati per motivi religiosi; 
  4. concedere il diritto di predicare il dharma ai monaci e alle monache; 
  5. compensare delle perdite le famiglie delle vittime delle violenze e punire i colpevoli.
Thích Quảng Dùc

Il 10 giugno 1963 alcuni rappresentanti della comunità buddhista di Saigon avvisarono la stampa americana che l'indomani sarebbe accaduto qualcosa nell'incrocio stradale davanti all'ambasciata Cambogiana.

Solo pochi giornalisti presero seriamente la notizia, tra cui David Halberstam del New York Times e Malcolm Browne dell'Associated Press. Ciò che videro fu un gruppo di circa 350 monaci e monache marciare assieme ad un'auto azzurra che portava cartelli in vietnamita e in inglese inneggiando all'eguaglianza religiosa. Arrivati all'incrocio tra il Boulevard Phan Dinh Phung e via Le Van Duyet dall'auto fu estratto un cuscino da meditazione, Thích Quảng Dùc vi si sedette nella posizione del loto e cominciò a meditare sgranando l'Aksamala di grani di legno recitando il mantra del Buddha Amitabha, notissimo in tutta l'Asia Orientale: "Nam Mô A Di Dà Phat". 

Un altro monaco del gruppo cominciò a versare una tanica di benzina sul corpo di Thích Quảng Dùc.  



Una volta raggiunto uno stato di concentrazione meditativa sufficiente Thích Quảng Dùc accese un fiammifero e avvampò in una grande fiammata. 



David Halberstam descrisse la scena durante la quale Thích Quảng Dùc rimaneva immobile e in silenzio, mentre la gente accorsa piangeva, pregava o si prosternava, cosa che fece anche un poliziotto, mentre un monaco all'altoparlante ripeteva: "Un monaco si dà fuoco, un monaco diventa martire".


Il corpo carbonizzato di Thích Quảng Dùc fu quindi portato dai monaci al tempio di Xá Loi , in centro a Saigon. Verso le 13:30 si trovavano già un migliaio di monaci e una gran folla di buddhisti che si mosse da lì al luogo del rogo. La polizia quindi prese ad arrestare dei monaci rimasti al tempio di Xá Loi e lo circondarono. Al tramonto di quella giornata migliaia di abitanti di Saigon dichiararono di aver visto in cielo l'immagine di Buddha piangente.

L'eco dei fatti non si spense rapidamente. La notizia e le immagini che avevano fatto il giro del mondo generarono tutta una serie di emuli.

  • Il giovane figlio di un ufficiale dell'ambasciata americana si diede fuoco, sopravvivendone a mala pena, "per provare com'era".
  • Il 16 marzo 1965 Alice Herz, ebrea tedesca, si diede fuoco aDetroit per manifestare a favore del Vietnam.
  • Il 2 novembre 1965 un quacchero pacifista statunitense, Norman Morrison, si diede fuoco dentro il Pentagono.
  • Roger Allen LaPorte, membro del Catholic Worker Movement, organizzazione anarchica-cristiana, si diede fuoco davanti al palazzo delle Nazioni Unite a New York il 9 novembre 1965.
  • Il 10 maggio del1970 fu la volta di George Winne Jr., sempre per protestare contro la guerra in Vietnam.
  • Il 19 gennaio 1969 a Praga Jan Palach si diede fuoco per protesta contro l'invasione sovietica esplicitamente dichiarando di emulare Thích Quảng Dùc.
  • Il 3 novembre 2006 Malachi Ritscher si diede fuoco a Chicago per protestare contro la guerra in Iraq.


Nessun commento:

Posta un commento